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Cronaca Senigallia

Accusato di schiavizzare le fidanzate, la verità dell'imputato in una arringa fiume di 8 ore

E' stata l'udienza della difesa dell'anconetano accusato di riduzione in schiavitù, violenza sessuale aggravata, lesioni e induzione al suicidio nei confronti di 2 minorenni

L'aggiornamento: la sentenza del tribunale

Non c’è alcun ragionamento filosofico, nessuna citazione baumaniana e nessun approfondimento in ambito psicanalitico che regga di fronte ad una serie di fatti ripercorsi dall’avvocato Massimiliano Cornacchia al termine di un’arringa fiume durata 8 ore per dimostrare una cosa sola: A.P., il 32enne senigalliese accusato di riduzione in schiavitù, violenza sessuale aggravata, lesioni e induzione al suicidio nei confronti di 2 minorenni, è innocente. Innocente perché, ne è certa la difesa, non c’è una sola prova che certifichi senza oltre ragionevole dubbio come l’uomo avesse trasformato le sue fidanzate in schiave, approfittandosi di uno stato di evidente vulnerabilità psichica e fisica. Per questo i legali Cornacchia e Gilberto Gianni ieri, alla Corte D’Assise di Ancona, hanno chiesto per il loro assistito l’assoluzione da tutti i reati contestati con formula piena. Soprattutto dalla riduzione in schiavitù, non solo perché, casistica alla mano, rappresenta una norma riferita a casi di tratta di esseri umani, ma anche perché, condizione sine qua non (imprescindibile), deve essere dimostrato come sia compromessa la capacità ad autodeterminarsi delle vittime. Ed in effetti è quello di cui è convito il pm Paolo Gubinelli, come la parte civile rappresentata dagli avvocati Domenico Liso e Roberto Paradiso. Per loro l’imputato è il ritratto del plagiatore: quel violento che, senza alzare le mani, porta le donne ad annullarsi nel rapporto con lui. Un amore impari, in cui all'uomo basta imporre il suo carisma autoritario per portarle a fare tutto, anche accettare la violenza. 

Ma stando alle indagini difensive, quelle 3 donne non erano affatto incapaci di scegliere per se stesse, come è inverosimile un quadro probatorio che paragoni P. ad un santone capace di manipolare la mente umana. La difesa trova le prove nella perizia (disposta dal giudice) dello psichiatra Renato Ariatti, dove emerge come nessuno dei coinvolti in questa storia soffra di malattie psichiatriche. «Cosa c’entra il paragone con Charles Manson? - chiede l’avvocato Cornacchia - Cosa c’entra la sindrome di Stoccolma? Si parla di tratti narcisistici e allora? Mai di uno stato che ne comprometta l’infermità. Non c’è erotomania. Non c’è la psicopatologia per cui è evidente come il perito di parte non ne abbia azzeccata una». P. secondo l’accusa avrebbe portato le sue fidanzate a tentare il suicidio. Accusa smentita dai referti medici messi nero su bianco dopo i ricoveri ospedalieri delle donne. Ci sono le testimonianze di stimati camici bianchi senigalliesi che dichiarano come le parti offese «siano un condizioni psichiche buone, non si evidenzino psicopatologie se non disturbi di ansia dovuti a rapporti familiari conflittuali». Ci sono anche le cartelle cliniche dal 2005 in poi a stabilire come le ragazze avessero gravi problemi di ansia, sì ma generati da rapporti conflittuali con i propri familiari e mai con l’imputato. Gli stessi familiari che, sempre per la difesa, hanno apportato al processo testimonianze definite “contaminate”. «La madre di una delle vittime - tuona l’avvocato - Ci dice che leggendo le altre testimonianze e sentendo la Polizia, apprende che l'imputato portasse le le sue donne ad una condizione di disperazione, che stessero con le maniche lunghe in abiti sciatti, in uno stato di subordinazione, trafelate e trascurate nella loro igiene. Lo apprende da altre testimonianze e dalla Polizia? Roba da matti! Questa è la prova di una contaminazione, del tentativo di screditare. Altro che processo. La vera suggestione è quella del pubblico ministero nei confronti delle vittime». E spuntano le foto. In particolare quella della seconda fidanzata poco dopo essersi lasciata: in discoteca, sorridente, truccata e in compagnia. «Sembra divertirsi, sembra stare bene, sono queste le donne ridotte alla disperazione?». 

E le presunte violenze sessuali? L’avvocato sventola in aula le lettere, quelle scritte nel 2005 della donna costituitasi parte civile quando stava con P., in cui si legge “Non servono cartelloni per esprimere quello che sei per me, quanto è grande l’amore che sento per te e che trovo in ogni tua carezza”. «Sono queste le violenze sessuali avvenute nelle prime settimane di fidanzamento? - chiede l’avvocato - Questa è la memoria storica che ristabilisce la verità. La verità di una ragazza che dice di stare male senza il suo fidanzato, che senza di lui deve combattere con un demone che ha dentro di sé. Il demone è quello di farse male. Questa è la verità. Quella di allora, non le menzogne che ci viene a raccontare oggi a processo». Sarebbe stato dunque l’imputato, al contrario, ad essere ostaggio delle ossessioni di quella fidanzata che lo ricattava con la minaccia del suicidio se lui l’avesse lasciata. Una testimonianza non credibile quella della parte civile. Come non è credibile andare a cercare la prova di una violenza in 2 righe di una tesi di laurea di 40 pagine da parte di una seconda presunta vittima. Come non è credibile che abbia schiavizzato la terza fidanzata, quella che ha sposato e che ieri era al suo fianco, in occasione dell’udienza tenutasi al 5° piano del tribunale dorico. Dunque una delle conclusioni tratte è che «tutto ha senso ed è lecito se siamo in 2 a volerlo». Ma la giustizia deve approdare ad una sola verità. Prossima udienza il 6 dicembre.

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