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Dal tribunale

L'incubo della donna che non poteva "toccare i soldi": condannato il marito violento

La donna ha raccontato di anni di offese, insulti, denigrazioni e anche violenze fisiche. Fino a quando poi non è fuggita da casa, portandosi via i figli e denunciando il marito. Dopo le indagini e il processo, è arrivata la sentenza di primo grado

Per anni è stata umiliata, offesa, denigrata dal marito con una costanza quasi quotidiana. Lei non poteva fare niente senza che ci fosse lui, neppure le attività quotidiane più banali: non poteva fare la spesa; non poteva uscire di casa da sola, non poteva conoscere nessuno. E poi gli insulti sul suo fisico e su come fosse una "pessima madre". E doveva anche ritenersi fortunata nella testa di lui, convinto che "se ci fosse stato qualcun altro al posto mio, ti avrebbe picchiato per educarti" le aveva rinfacciato una volta. Come se poi lui stesso non avesse mai alzato le mani sulla moglie. Secondo la Procura di Milano invece lo ha fatto almeno due volte in svariati anni di vessazioni. Tanto che il 5 marzo scorso lui, un 41enne di Milano, è stato condannato a quattro anni di reclusione dal tribunale collegiale, presieduto dalla giudice Elisabetta Canevini.

L’accusa

Secondo quanto ricostruito dalla pubblica accusa, la donna, una 40enne di Milano, ha subito per anni le angherie del marito. Lui l’aveva sempre di più isolata in casa, senza la possibilità di avere rapporti amicali con conoscenti o parenti. Non poteva neppure permettersi di pagare una semplice bolletta. Quando aveva provato a farlo, nel 2013, lui aveva dato in escandescenze al telefono: "Sei una stupida, ti ho detto mille volte di non toccare i soldi se non ti do io il permesso, vieni a casa subito altrimenti vengo lì e ti prendo per i capelli" aveva urlato l’uomo.

Con lui, bastava anche solo proporre qualcosa per farlo imbestialire. Come quella volta in cui la madre aveva proposto di andare a Genova per festeggiare il compleanno di uno dei due figli minorenni con i parenti di lei. Per tutta risposta, lui aveva sbraitato. "Sono solo io a decidere dove e quando festeggiare il compleanno e dove e quando tu puoi vedere  i tuoi familiari". Parole durissime, proferite mentre lui avrebbe anche tirato in faccia a lei un bicchiere di plastica con dell’aranciata.

Secondo gli elementi indiziari raccolti dagli inquirenti, lui l’ha anche aggredita fisicamente almeno due volte. La prima nel 2018, quando l’avrebbe presa e spinta contro il letto perché non aveva sistemato bene la spesa. La seconda, nel 2020, quando, all’apice di un litigio, l’ha rincorsa fino alla camera dei bambini dove, sempre secondo i pm, l’ha presa e sbattuta con violenza contro la parete.

Un inferno durato anni. Fino a quando il marito non ha cominciato a parlare di portare i figli fuori dall’Italia. Minacce diventate sempre più frequenti quando l’uomo si preparava ad andare all’estero per il matrimonio del fratello. Così la donna, nell’ottobre 2021, ha preso con sé i figli ed è fuggita da alcuni amici nelle Marche. Lì ha sporto querela nei confronti del marito. Due mesi dopo, il Tribunale per i minorenni delle Marche ha deciso per la sospensione della potestà genitoriale del 41enne sui figli (ancora in corso ma con la possibilità di incontri protetti). Sentenza presa dopo il ricorso effettuato dalla donna. Nel gennaio del 2022 poi i giudici milanesi hanno anche disposto il divieto di avvicinamento dell’indagato alla parte offesa.

La sentenza e la difesa dell’uomo

Dopo le indagini e il rinvio a giudizio, si è concluso il processo di primo grado, nel quale la 40enne si è costituita parte civile tramite l’avvocato Laura Versace, ottenendo un risarcimento di 50mila euro. L’imputato invece è stato condannato a quattro anni, nonostante il pm ne avesse chiesti due e mezzo. Un fatto questo che non convince i legali dell’imputato, gli avvocati Silvia Germinara e Riccardo Cioffi del foro di Monza. Secondo gli avvocati difensori, che preannunciano di fare appello alla sentenza, il processo si è basato tutto sulle parole della donna, senza che ci fossero delle prove, come per esempio dei certificati medici. L’assenza di prove documentali avrebbe dovuto portare all’assoluzione dell’uomo. Inoltre gli avvocati monzesi hanno ricordato il peso di una perizia di una psicoterapeuta nominata dal tribunale, dalla quale emergerebbe come l’uomo "non sa cos’è la cattiveria". Un documento di cui, a dire dei legali, ha tenuto conto il pm e non il giudice. Il che spiegherebbe la netta differenza fra la richiesta della Procura e la decisione del collegio.

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