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Cronaca

Il suicidio in carcere di Matteo, mamma Roberta non si dà pace: «Perché non siamo stati ascoltati?»

«Ce lo aveva detto poche ore prima - dice singhiozzando - ed avevamo capito che c'era qualcosa di grave che lo turbava. Aveva solo chiesto di essere curato, di essere aiutato: è stato lasciato solo»

«Ero davanti al cancello di casa, eravamo appena tornati. Mi è squillato il cellulare ed ho visto il prefisso 071, ed ho pensato ad una telefonata per avvertirmi che era stato chiamato un medico, che avevano spostato Matteo, dopo quello che mi aveva detto e che i presenti al colloquio avevano sentito. Dall’altra parte solo la voce del Sovraintendente, che in pochi secondi mi ha comunicato quello che era accaduto. Non so nemmeno dire quanto tempo sono restata lì, immobile, senza forze, senza voce: solo due ore dopo ho trovato il coraggio di chiamare ed avvertire mia sorella e mia famiglia. Di spiegarli che Matteo non c’era più, che si era suicidato. Anzi, che è stato ucciso da uno Stato che non ha compreso, che non ha raccolto il grido di aiuto che aveva lanciato, sordo alle richieste di un ragazzo che chiedeva solo di essere curato».

Il tono di voce della signora Roberta si incrina, ma non si abbassa. Il dolore, straziante, per la scomparsa di un figlio è sempre lì, nelle parole di una madre che ha perso un ragazzo di appena 25 anni, ritrovato senza vita all’interno di una cella del carcere di Montacuto. Matteo, lo aveva detto, quel maledetto 5 gennaio. “Mamma, io mi impicco, se mi riportano laggiù”, riferendosi all’isolamento dove era stato condotto a seguito di uno scontro con un secondino. «E’ stata la prima cosa che mi ha detto – ricorda – ed anche al personale del carcere. Mi aveva anche detto di contattare al più presto Ilaria Cucchi, perché temeva che avrebbe fatto la fine di Stefano: abbiamo cercato di rassicurarlo, non abbiamo preso sottogamba quelle parole, ma abbiamo provato pure a spiegare a chi di dovere le nostre paure, la necessità che Matteo venisse monitorato costantemente. Che lo spaventava tornare in quel seminterrato che mi aveva raccontato era senza finestre, senza lavandino e con il termosifone rotto. Ma chi doveva sorvegliare ed impedire che si facesse del male? Perché alla richiesta di poter conferire con qualcuno, anche solamente un medico a cui rendere conto del timore che mio figlio avrebbe potuto commettere una sciocchezza, sono state ignorata e mi è stato detto che non c’era modo di poterlo fare?»

Non si dà pace, la mamma di Matteo. «Con quella documentazione, le pec, la cartella clinica, come si fa a non dare peso alle sue parole? Che ha cominciato a pronunciare non quando stava a Fermo, e nemmeno a Rieti, strutture carcerarie dove nel complesso sembrava più sereno, tanto che mi diceva che non era necessario che lo andassi a trovare così di frequente, che stava bene. Poi le cose sono peggiorate dal suo trasferimento in Ancona, fino a quel venerdì dove nel colloquio ci siamo accorti che la situazione stava precipitando, inaspettatamente». La signora Roberta racconta che aveva provato a spiegargli come, di lì a pochi mesi, una volta estinto il suo debito con la giustizia, avrebbe finalmente riavuto in mano la sua vita: fatta di progetti, di nuove opportunità. «Gli dissi che si sarebbe trovato un lavoro, avrebbe preso quella moto che tanto gli piaceva, o una macchina, recuperando tutto il suo tempo. E di considerare questo periodo come un incidente di percorso, che una volta superato farà parte del passato».

Quel tempo che, invece, non tornerà. «Era riluttante alle regole – spiega – ma non cattivo. E soprattutto aveva delle doti: nel maneggio di mio padre già da piccolino ferrava i cavalli, li sellava, sapeva anche portare la ruspa. In comunità aveva anche imparato a tagliare i capelli. Ultimamente veva con sé una macchinetta che mi aveva chiesto di comperargli, era orgoglioso che tanti detenuti andassero da lui per farseli sistemare. Voleva solo essere curato, Matteo: aveva sempre collaborato negli ultimi anni rendendosi disponibile ad essere assistito, ad assumere farmaci che gli erano stati dati all’interno della comunità e nei giorni scorsi aveva esplicitamente richiesto perché lo facevano stare meglio. Non mi ha mai detto “Mamma, riportami a casa”, perché era cosciente di aver sbagliato e di dover pagare per quello che aveva fatto. Ed è questo che mi viene spontaneo chiedere: perché né lui né io siamo stati ascoltati?».

Le ultime parole sono una richiesta, accorata. «Deve scrivere una cosa – chiude Roberta – e me lo deve promettere. Dovete fare arrivare queste parole a Giorgia Meloni, alla presidente del Consiglio. Le deve chiedere, a lei che è una madre di famiglia, perché tante persone che si sono macchiate di reati gravissimi, ai peggiori delinquenti mafiosi ed assassini, hanno avuto la possibilità di essere curati, di essere assistiti fino all’ultimo dei loro giorni, e perché questa opportunità non è stata concessa a mio figlio che pure lo aveva chiesto. Che già da settimane aveva spiegato di aver bisogno di aiuto per liberarsi di quel “mostro” che aveva dentro e lo faceva stare male, che da settimane aveva domandato di essere ricoverato in un presidio psichiatrico, lui che da dieci anni conviveva con questi problemi e non lo aveva mai chiesto. Perché un figlio può morire per un incidente, se ne può andare per una malattia, ma così, per mano degli altri, no».

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