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Martedì, 19 Marzo 2024
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Vera, anconetana a Wembley: «Scene di guerra, ma in ufficio ho la mia corona» 

Vera D'Aloisio, il suo ragazzo e tre dottorandi possono dire “Noi c’eravamo” nella notte di Wembley.

Vera D’Aloisio vive a Liverpool da oltre quattro anni. Partita in Erasmus, oggi è ricercatrice alla John Moores University e si occupa di farmaci antiemicranici. Pensando alla notte magica di Wembley lei, il suo ragazzo e tre dottorandi possono dire “Noi c’eravamo”. «Abbiamo viaggiato sei ore in bus da Liverpool, una volta a Londra ci siamo diretti allo stadio e abbiamo trovato il caos più totale» racconta Vera. «L’entrata è stata caotica, c’erano molti inglesi ubriachi e noi eravamo lì quando c’è stato lo sfondamento delle transenne». La ragazza racconta che, insieme al suo gruppo, si è trovata per oltre mezz’ora bloccata tra il primo gate, praticamente sfondato, e il secondo, bloccato temporaneamente dallo staff per sicurezza. «C’era gente scalza, perché nello scavalcare aveva perso le scarpe, altri con i pantaloni rotti. Scene di guerra». Il viso di Vera, dipinto con il tricolore con la scritta “Ancona c’è”, e la coroncina bianca rossa e verde sulla testa rendevano ogni momento carico di tensione: «Amo il calcio, seguo spesso il Liverpool ma ieri era tutto  molto diverso. Cercavamo di stare sempre in gruppo. Dentro lo stadio eravamo al primo livello, in mezzo agli inglesi, ci siamo detti “se inizia la partita e questi si agitano non siamo in una bella posizione”, quindi ci siamo spostati dove c’era una cinquantina di italiani. 7mila connazionali? Così dicono, io così tanti ne ho visti solo fuori per i festeggiamenti». 

«Sei italiana, non dovresti stare qui»

«Dentro lo stadio l’atmosfera era bella e fortissima, da piccola andavo a vedere la Juve con papà, ma ieri è stato tutto diverso- racconta Vera- al gol di Shaw sembrava dovesse venire giù lo stadio, non mi ero neppure resa conto che la partita era iniziata. Dopo il gol, tanti fischi, compresi quelli al nostro Inno. Sono uscita con il mal di testa». Il pari di Bonucci, poi la lotteria dei rigori che ci ha fatto campioni. Festa? No. «Siamo rimasti più a lungo possibile dentro lo stadio, poi uno steward ci ha fatto uscire da una porta secondaria, forse perché c’erano già state le aggressioni di fuori. Abbiamo cantato un paio di cori, ma niente di più. La metro era affollata e abbiamo preferito salire qualche fermata più in là, anche per paura del Covid. Domenica le misure di sicurezza praticamente non c’erano. In centro siamo andati a mangiare in un locale, io tenevo il posto agli altri del gruppo  quando un ragazzo ha chiesto se poteva sedersi. Gli ho risposto che era occupato e una giovane che era lì mi ha detto: “Guarda che tu non dovresti neppure esserci qui, sei italiana”. Il mio supervisore al lavoro si è dissociato da tutto questo modo di tifare, spiegandomi che gli inglesi non sono tutti così». 

Il day after, il Covid e il futuro 

Vera ieri ha terminato un meeting alle 18,30: «Nel mio laboratorio non c’era nessuno, a parte me e una ragazza egiziana, su 8 persone. Gli inglesi avevano firmato una petizione per indire una festa nazionale in caso di vittoria, forse hanno deciso lo stesso di prendere il giorno libero, perché qui il calcio è una religione comunque vada. Io? Ho attaccato la mia coroncina tricolore alla porta». Futuro? «Voglio tornare in Italia, il mio cuore è a casa anche se professionalmente l’Italia mi ha “cacciata”- dice Vera- per la ricerca da noi non c’è posto, qui invece sono accoglienti e pagano di più. No, non bisogna pensare affatto agli inglesi solo come hooligans». Tra pochi giorni il governo Johnson abolirà le restrizioni anti-Covid quasi del tutto: «Qui c’è una grande differenza con l’Italia, la libertà personale è sopra tutto, ma perché ognuno rispetta quella dell’altro- spiega la ricercatrice-  le mascherine all’aperto non sono mai state obbligatorie, ma se al chiuso non la porti basta dire “sono esente” e nessuno ti chiede certificati o prove. Quando dicevano di stare a casa non controllavano, ma perché l’inglese a casa ci stava davvero. In Italia questo non accade, l’italiano medio non sceglie per il bene comune, ma sempre per sé stesso». 

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