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Il Trovatore-giornalista antifascista non piace a tutti ma alla fine convince

Regia macchinosa nel finale ma promossa dal pubblico. Ovazione per l'anconetana Marta Torbidoni nei panni di Leonora

Qualcuno avrà storto il naso alla vista di un Manrico giornalista e partigiano, della carovana degli zingari trasformata in un gruppo partigiano che stampa un foglio clandestino nascosto dietro l’insegna di una ditta di traslochi (“Traslochi Zingarelli”, appunto) e il Conte di Luna, gerarca fascista a capo di un manipolo di camicie nere. Se ne faccia una ragione. Se l’opera seria è portatrice di sentimenti e valori immortali nel tempo – come l’amore, come la libertà e, sì, anche la lotta per entrambi - allora la storia di può adattare e trasformare. Attualizzare. Magari insegnarci che la Storia, quella con la S maiuscola, pur cambiando forma, si ripete. Che tra fratelli può scorrere sangue. «Come nella Francia occupata, come nella Spagna delle guerra civile, come in Italia durante la Liberazione tra Fascisti e Partigiani» dice la regista argentina Valentina Carrasco che usa proprio quest’ultimo frammento storico per Il Trovatore di Giuseppe Verdi, prima della 51esima stagione lirica del teatro Pergolesi di Jesi, in scena ieri sera. Promosso? Sì. In scena si sfruttano anche immagini video: di prigionieri sopraffatti per il Racconto di Azucena (nella seconda parte), di guerra e assalti per il coro dei soldati del Conte (inizio terza), di roghi di libri. Un po’ di cinema che non guasta ma arricchisce, sottolinea. Come quando Leonora (l’ottima soprano Marta Torbidoni da Montemarciano, la più applaudita alla sua prima al Pergolesi) rivede Manrico (bravo! e applausi anche per il tenore Ivan Defabiani) che credeva morto a fine seconda parte: tutti in scena si bloccano, il tempo si ferma per lasciare la scena ai pensieri della protagonista (“E deggio… e posso crederlo?”) nel rivedere l’amato.

L’amore è amore, non credete? Sentimento immortale. Sia che si collochi nel XVI° secolo come fece Verdi nel 1853, sia che lo si attualizzi come sul palco del Pergolesi. Il potere costituito e la lotta contro di esso, anche. Si sarebbe potuta ambientare nella Russia comunista di Bulgakov o, se vogliamo passare dalla Storia alla cronaca, anche in questi giorni con il caso di Jamal Khashoggi, ucciso in circostanze misteriose nell'ambasciata saudita in Turchia. Il Coro degli Zingari non ha martelli sull’incudine ma lo scampanellio di una macchina da scrivere arrivata a fine riga? Ci sta all’interno di una redazione negli anni ’40 del XX° secolo e non guasta mica. Con buona pace dei puristi. Qualche dubbio, semmai, ci è rimasto per le pause, a luci spente e sipario chiuso, per modificare la scena. A Leonora è toccato il compito di intrattenere, raccogliere un silenzio generale, pieno di dubbi e di “e adesso?” sussurrati al vicino. Alle prese con un cambio d’abito prima (tra fine terza e inizio quarta parte) e con il veleno poi (per il finale). Quasi uno sgambetto al ritmo, anziché uno slancio, che ha fatto incespicare il crescendo drammatico finale: davvero non si riusciva a trovare un altro espediente? L’applausometro, tutto sommato e al netto di un paio di fischi, dice che il pubblico alla fine ha gradito. Applausi per il baritono Simone Alberghini (Conte di Luna) in crescita dopo un’incertezza iniziale, per Ivan Defabiani e vera ovazione - più rollate di piedi - per la Torbidoni e anche per la iper espressiva mezzosoprano Silvia Beltrami (la zingara Azucena). Domenica 28 ottobre alle ore 16 si torna in scena per la replica al Pergolesi. Gli spettatori potranno ritrovare anche la Form diretta da Sebastiano Rolli e il Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, guidato da Giovanni Farina.

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