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Cronaca

Ochek è sulla Geo Barents e racconta la barbarie in Libia. Ferro ardente sul petto e pistola alla testa: «Ero pronto a morire in mare»

Il giovane eritreo è in viaggio verso Ancona sulla Geo Barents, una delle due navi ong in arrivo al porto dorico. Da bordo nave, il 21enne racconta la fuga dal suo Paese e le torture in Libia

MARE ADRIATICO - Si chiama Ochek (nome di fantasia), ha 21 anni ed è originario dell’Eritrea. Ora è a bordo della Geo Barents, la nave ong di Medici Senza Frontiere in viaggio verso Ancona dopo il salvataggio dei migranti davanti la Libia. Quando aveva 4 anni la madre ha deciso di andare in Sudan per salvarlo dal servizio militare. In Eritrea, infatti, i bambini di 8 o 9 anni vengono arruolati nell’esercito. «Un giorno il governo ha portato via mio padre e mia madre ha avuto paura che succedesse lo stesso a me- racconta Ochek- ho vissuto in Sudan per circa 13 anni, ma da quando avevo 14 an-ni avrei voluto andarmene, non pensavo che sarebbe stato così tanto pericoloso. Pensavo sarebbe stato semplice arrivare in Libia e poi in Europa. In Sudan ho fatto diversi lavori, ho lavorato in un ristorante e in una miniera d’oro nelle montagne. Poi ho deciso di andare in Libia e lì le cose sono cambiate».

Arrivo in Libia

«Per andare in Libia ho pagato un intermediario. Lui mi aveva detto che avrebbe pagato il trafficante, ma il trafficante mi disse che non aveva ricevuto niente e così avrei dovuto pagare di nuovo o avrei dovuto lavorare per lui. Non avevo nessun parente in grado di mandarmi del denaro e sono stato costretto a lavorare per lui in una fattoria, con il bestiame. Non sempre mi trattava bene, così dopo 3 mesi sono fuggito- racconta il giovane da bordo della Geo Barens- in Libia gli eritrei sono costretti a vivere nascosti. Dobbiamo rimanere in casa, raramente usciamo perché se ci vedono ci rapiscono per chiedere il riscatto. Ci chiedono di pagare in dollari perché credono che abbiamo parenti in Europa. Sono stato rapito due volte ma entrambe le volte sono riuscito a fuggire. Sono stato rinchiuso in una piccola stanza sovraffollata, con una finestra piccola. La mattina ci davano un pezzo di pane e c’era una tanica d’acqua desalinizzata, era amara. Dentro la stanza c’era un bagno e dormivamo su un fianco, uno attaccato all’altro per terra.  Eravamo 70/100 persone ma non c’era un limite di persone, i trafficanti continuavano a portare gente». 

Il miraggio della libertà, poi le torture

«Un giorno siamo riusciti a fuggire- racconta il ragazzo- le guardie bevevano e fumavano fino all’alba così alle 2 di notte siamo riusciti a scappare. Io sono andato in un posto dove vivevano altri sudanesi e ho trovato lavoro. Devi essere fortunato, qualcuno ti pa-ga altri no. Io sono riuscito a guadagnare abbastanza per pagare un trafficante. Mentre ci stavano trasferendo verso Tripoli, però, siamo stati arrestati e ci hanno imprigionato di nuovo in una stanza sovraffollata. Maltrattamenti, abusi, umiliazioni erano all’ordine del giorno. Era una milizia. Siamo rimasti lì per 15/20 giorni, fino al giorno in cui non ho lasciato la Libia ho subito torture e maltrattamenti e ho visto con i miei occhi persone picchiate e maltrattate. Sono stato torturato. Mi hanno legato le mani e bruciato con una sbarra di ferro ardente. Ho il petto pieno di cicatrici. Ci colpivano con il fucile o ci bruciavano il petto con metalli ardenti. Ci costringevano a chiamare la famiglia per chiedere aiuto, per mandare i soldi del riscatto. Dopo 15 giorni di torture, uno di questi trafficanti, un uomo anziano di circa 80 anni, vedendomi in quello stato ha detto agli altri che sarei morto se avessero continuato a torturarmi. Altre persone che avevano già pagato il proprio riscatto hanno raccolto altri soldi e hanno pagato anche per me. Mi hanno messo in macchina e mi hanno lasciato a Tripoli dove ho trovato un gruppo di sudanesi con cui sono rimasto».

«In Libia la tortura ti segue dentro e fuori dal carcere- continua il 21enne- o nelle stanze dove ti rinchiudono. Di notte, ti puntavano una pistola alla testa, ti prendevano tutti i soldi e ti picchiavano. Sei costretto ad entrare in queste stanze dove ti fanno morire di fame. Se parli dei maltrattamenti ti picchiano ancora di più o sei costretto a rimanere lì per più tempo. Ci facevano mangiare pasta mischiata ai sonniferi e al mattino ti trovavi un morto accanto mentre quello dietro di te era stato torturato. In bagno trovavi chi si puliva le ferite mentre bevevi acqua amara vicino a lui. Quando mangiavi c’era chi ti vomitava accanto. Un mio amico aveva sognato ad occhi aperti di andare in Europa. Al mattino l’ho trovato morto e ho coperto il suo corpo. La tortura ha molte forme in Libia. Vedi donne stuprate davanti a te e non puoi fare nulla anche se arrivano dal Sudan come te. Se provi ad aiutarle ti minacciano con la pistola o ti picchiano con un bastone. Ero pronto a morire in mare pur di non essere catturato dalla guardia costiera libica ed essere riportato indietro e subire di nuovo umiliazioni e torture»

Il viaggio

«In mare il gommone si muoveva su e giù. Un uomo ha visto una barca di pescatori in lontananza e ha cominciato ad urlare che era la guardia costiera libica- racconta il giovane- tutti sono stati presi dal panico, le persone vomitavano, avrebbero preferito morire in mare. Prima di prendere il mare, ci hanno rinchiuso tutti e 70 in una piccola stanza lontano dalla riva. Non puoi parlare, aprire la bocca o muoverti. Eravamo seduti uno accanto all'altro, molto stretti, poi uno per uno ci hanno portato in macchina, dove eravamo accatastati uno sopra l’altro. Ci hanno portato in un altro posto più vicino alla riva, a pochi passi dalla spiaggia. La notte ci portavano fuori in gruppi di 10 persone. Ci hanno fatto portare il gommone e ce lo hanno fatto mettere in mare. Siamo saltati su e abbiamo pregato. Ci siamo affidati a Dio e siamo partiti. Le onde ci portavano su e giù ma, nonostante ciò, non avevamo paura fino a che quell’uomo non ha gridato che c’era la guardia costiera libica. Le persone in Libia non sono al sicuro, ci hanno picchiato con tutta la forza e la rabbia, senza pietà, come se avessimo commesso un omicidio contro di loro. Ora sulla nave di Medici Senza Frontiere mi sento al sicuro ma, allo stesso tempo, non sono ancora completamente sollevato perché sono ancora in mare e ho paura di tornare indietro. Non vedo l'ora di raggiungere l'Italia e toccare terra per iniziare a dimenticare tutto quello che ho vissuto in Libia e in Africa».
 

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