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Cronaca Piano / Mercato Piazza d'Armi

Così la family dello spaccio seminava il terrore nel quartiere: «Il Piano è roba nostra»

Ecco come veniva gestito il racket della droga in piazza d'Armi: il racconto delle vittime

L’obiettivo era dominare il mercato della droga al Piano con metodi intimidatori e violenti, che spesso sfociavano in aggressioni e pestaggi. D’altronde, secondo gli inquirenti, il capofamiglia era un vero boss che non esitava a mostrarsi fiero e sprezzante anche nei confronti dei poliziotti che in passato l’avevano ripetutamente perquisito. Si vantava di essere un pregiudicato di “alta classe”, e di aver acquisito una certa esperienza nel gestire il “lavoro di spacciatore” grazie ai tanti anni trascorsi in galera. Non gradiva quei controlli, poco rispettosi del suo “curriculum” delinquenziale. E dei poliziotti che continuavano a fermarlo durante i servizi antidroga, diceva: «Io conosco loro, ma loro non conoscono me. Cosa pensano di trovarmi addosso? Mica lavoriamo come tossici, noi. Questa zona è nostra».

La zona è piazza d’Armi, dove viveva il 49enne rom, arrestato all’alba di martedì dalla Squadra Mobile diretta dal capo Carlo Pinto, insieme alla moglie coetanea e ai figli di 25 e 22 anni con l’accusa (per tutti) di associazione per delinquere finalizzata al compimento di vari delitti. La family dello spaccio (i genitori sono in carcere, i figli ai domiciliari), secondo gli investigatori, voleva monopolizzare il mercato della droga al Piano. Lo avrebbe ammesso lo stesso capofamiglia in modo spudorato ai poliziotti, durante una perquisizione a novembre: diceva di aver voluto riprendere il controllo del “suo” territorio e di aver spazzato via ogni forma di criminalità, autocompiacendosi dei 27 anni trascorsi in prigione. Per realizzare il loro piano, marito, moglie e figli esercitavano un’azione intimidatoria e spesso violenta nei confronti di altri pusher ma anche degli stessi tossici per evitare che si mettessero in proprio o si rifornissero da altri spacciatori. Perché il loro timore è che cominciasse a circolare “roba” più buona rispetto alla loro, giudicata di scarsa qualità da molti clienti.

Il pestaggio 

Chi ci ha provato (o almeno, era sospettato di farlo) è finito malissimo, come un 40enne disoccupato che la mattina del 4 ottobre scorso è stato selvaggiamente picchiato dal boss: «Mi rimproverava dicendo che non dovevo spacciare l’eroina per gli altri e dovevo andarmene dal Piano - ha raccontato agli 007 della Squadra Mobile -. Ma come si fa tra noi tossici, ci si aiuta a vicenda a rimediare qualche “pallina” e questi miei movimenti devono essere stati mal interpretati. Immagino che volesse avere il controllo della piazza». Per questo è stato pestato, in pieno giorno, in piazza Ugo Bassi, davanti a tanta gente: una scarica di pugni che l’hanno mandato all’ospedale con uno zigomo rotto e il volto sfigurato. Un’aggressione dalla forte carica simbolica, che il boss del Piano avrebbe utilizzato in seguito per intimidire altri tossicodipendenti che non sottostavano alle regole. E’ il caso di una donna invitata a non farsi più vedere in piazza d’Armi per i suoi trascorsi con la giustizia. «Questo è il posto mio e ognuno va a fare il tossico a casa sua - così l’avrebbe minacciata un giorno -. Se tu vieni qui, mi porti gli sbirri e io non posso avere problemi con loro. Non ti basta quello che ho fatto ai tuoi amici? Vuoi che rompo la testa a te e al tuo compagno?». I tossici che si rivolgevano alla famigliola rom finivano per cadere in una seconda dipendenza, ancor più subdola e pericolosa rispetto a quella da stupefacenti.

Arresti operazione Piano San Lazzaro

Bicarbonato al posto della cocaina

Specie se non si rispettavano i patti, com’è accaduto a una 25enne minacciata a novembre perché si rifiutava di pagare la cocaina acquistata a casa del boss. «Non era coca, era bicarbonato - ha dichiarato agli inquirenti -. Ma mi ha detto che dovevo portargli i soldi lo stesso perché quando avevo preso la “roba” non l’avevo verificata e mi era andata bene così». In effetti, a sentire i racconti degli assuntori, la family dello spaccio era abituata a tirare “pacchi”: se non bicarbonato, sicuramente droga di bassa qualità, tagliata male, che avrebbe mandato all’ospedale diverse persone, come una tossicodipendente che sostiene di aver comprato dell’eroina dai rom e di aver rischiato l’overdose perché «non era buona». Gli inquirenti, che contestano il reato di lesioni aggravate come conseguenza di altri delitti, stanno indagando anche sulle ultime morti sospette al Piano, come quella del 45enne trovato senza vita a gennaio nei bagni pubblici di piazza d’Armi, stroncato da un’overdose.

Soldi in cambio di protezione

Al disegno criminale, sempre secondo gli investigatori, partecipavano anche gli altri componenti del nucleo familiare, specialmente la moglie 49enne del boss che ne rappresentava una longa manus durante il periodo di detenzione in carcere, in particolare nel gestire i rapporti con una coppia di fidanzati che i rom in un primo momento avevano aiutato, “liberandoli” da un debito dell’uomo (tossicodipendente in cura al Sert) con pusher albanesi, ma poi si erano accaniti su di loro, pretendendo 5mila euro in cambio di “protezione”. I fatti risalgono al 2018. Di fronte al primo rifiuto, la rom avrebbe minacciato la donna di farle passare guai con la giustizia, consegnando ai carabinieri una presunta registrazione in cui la vittima chiedeva al boss di «ammazzare gli albanesi» perché pretendevano soldi dal suo compagno. Frasi, peraltro, mai proferite. Da lì sarebbero cominciate vessazioni sfociate in una vera e propria persecuzione, con minacce di morte arrivate via sms da numeri anonimi, come: «Ovunque vai ti seguo e ti ammazzo» e «voi due siete morti». Terrorizzata, la vittima si è piegata alla volontà dei rom: ha consegnato il suo bancomat, con tanto di pin, che la gang avrebbe usato per prelevare ogni mese l’esiguo stipendio della donna (400 euro) e pure la tredicesima, per un totale di 2000 euro. Non contenti, l’hanno indotta a prendere un prestito di 5mila euro, minacciandola che, se non l’avesse fatto, avrebbero picchiato il fidanzato. Così sarebbero riusciti a spillarle altri 3mila euro. Inoltre, avrebbero rapinato il suo compagno del cellulare, reiterando le minacce di morte quando improvvisamente il bancomat ha smesso di funzionare. L’incubo è finito nel momento in cui la coppia ha preso il coraggio a quattro mani e ha denunciato tutto alla polizia, confermando la tremenda forza intimidatrice che tutti i componenti del nucleo familiare, nessuno escluso, esercitava nel periodo in cui il capofamiglia era in carcere. 

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