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Cronaca Osimo

Filippo ha sconfitto il virus, la sua battaglia: «Tra la vita e la morte pensavo a Regeni»

Filippo Leoni racconta come ha scoperto e battuto il virus. Il ricovero, la degenza sofferta e i pensieri nei momenti più difficili

La febbre alta, la debolezza e tutti i cibi che sembravano disgustosi. Poi quasi un mese in ospedale tra prelievi arteriosi, respirazione forzata e perfino una compagna di stanza vista morire. Filippo Leoni, 70enne osimano, il Coronavirus l’ha guardato in faccia e l’ha sconfitto con l'aiuto dei medici e gli infermieri dell’Inrca. Sabato 11 aprile è stato dimesso tra gli applausi (GUARDA IL VIDEO), ma dal 5 marzo la sua vita si era trasformata in un inferno con i primi sintomi del Covid-19: «Per 10 giorni ho avuto febbre sopra i 38°, poi è arrivata la debolezza e i cibi sembravano cattivi. Il medico di famiglia mi ha detto di chiamare il 118 e quando mi hanno spiegato che il tampone era positivo ho pensato di essere condannato a morte- racconta Filippo – no, non ci potevo credere che era toccato proprio a me. Medici e infermieri sono stati bravissimi e voglio ringraziarli tutti, ma in quei momenti vedi le cose senza il classico filtro positivo- continua l'insegnante di fisica- e io, che combattevo tra la vita e la morte, pensavo a come poteva sentirsi Giulio Regeni e tutti quelli che erano torturati. Per due o tre notti non ho neppure dormito». 

La degenza

Nel reparto di malattie infettive Filippo ha passato parte del tempo in una stanza con altri tre degenti infetti, tutti di età superiore agli 80 anni. Una donna l’ha vista morire: «Una notte sono entrati gli infermieri e l’hanno portata via in un sacco bianco, è stata una brutta immagine, però ci sono anche molte persone che ce l’hanno fatta». La finestra c’era, ma la vista era impedita da un edificio appena costruito. La macchina per la ventilazione forzata, che non ha nulla a che vedere con l’intubazione, sembrava insopportabile: «La tua respirazione deve essere coordinata con il ritmo del macchinario, non riuscivo a sintonizzarmi e mi pareva di soffocare anche perché la mascherina premeva con forza sul viso». E poi i tubi. Tanti: «Sul braccio destro c'erano quelli per il prelievo venoso, a sinistra quelli per l’arterioso che è più doloroso perché il sangue viene pescato più in profondità». Medici e infermieri entravano e uscivano completamente bardati dalle protezioni, impossibile vederli in faccia: «Se entrava un addetto alle pulizie lo riconoscevo solo da quello che si metteva a fare. A volte dicevano che fuori era una bella giornata e in quei momenti mi mancava il mio giardino, perché capivo che stava arrivando la primavera». Gli infermieri passavano anche con i tablet, per chiedere se Filippo o qualcun altro volesse videochiamare qualche familiare: «Ho sempre detto di no, perché i miei cari volevo vederli a casa».

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Il miglioramento

Dopo i primi 10 giorni la situazione di Filippo era migliorata: «Mi liberavano man mano dai tubi, gli ultimi 10 giorni sono stati quasi una vacanza. Ascoltavo le canzoni rap che compone mio nipote di soli 13 anni, leggevo l’Orlando Furioso e facevo la settimana enigmistica». Alla vigilia di Pasqua Filippo, dopo due tamponi negativi, ha lasciato l'Inrca: «La prima cosa che ho fatto una volta a casa è stata una gran bella doccia». Oggi, tra analisi di controllo e lockdown, vuole mandare dei messaggi chiari. Il primo a chi sta male: «Vorrei abbracciarvi tutti», poi a chi lo ha curato: «Un grazie speciale» e infine a chi pensa di sfidare le misure di protezione: «No, tenete duro, perché vi garantisco che ammalarsi di questa cosa è una gran brutta storia».

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