Giulio ringrazia l'Aids: «E' mio amico, ecco come mi ha trasformato in meglio»
A inizio anni '90 sua madre ricevette una telefonata dal medico: «Le disse che non sarei vissuto più di quindici giorni». Oggi ha 55 anni e racconta la sua battaglia
Era una giornata estiva di inizio anni ’90 quando a Porto San Giorgio in casa di Giulio, 30 anni, squilla il telefono. Risponde sua madre, dall’altra parte della cornetta c’è il primario dell’ospedale di Fermo: «Signora, questa malattia non farà vivere suo figlio per più di quindici giorni». Si sbagliava. Oggi Giulio (nome di fantasia che abbiamo scelto per proteggere l’identità della persona) ha 55 anni e si trova nella casa alloggio “Il Focolare”, una struttura a cavallo tra Ancona e Camerano gestita dall’associazione Opere Caritative Francescane Onlus per i malati di Aids. E’ seduto sul letto della sua camera con in mano il libro di poesie che ha scritto di suo pugno e per raccontare la malattia che lo accompagna da quasi 30 anni usa un aggettivo che non ti aspetti: «L’Aids è un amico, vive con me, va dove vado io e sai cosa ti dico? Gli dico grazie. No, non sono matto, è che l’Aids mi ha trasformato in meglio perché mi ha dato modo di conoscere un 70% di vita che altrimenti non avrei conosciuto». Ad esempio? «Fare volontariato alla Caritas o rispondere al Telefono Amico, regalare quello che di buono mi è rimasto al prossimo. Nella mia vita me ne sono sempre approfittato del prossimo, per avere i soldi necessari a comprare alcol e droga. Non rubavo, ma me li facevo prestare e a qualcuno non li restituivo».
Le prime droghe e il rapporto non protetto
La storia di Giulio inizia nel 1980 con il servizio militare a Ravenna dopo un mese di addestramento a Chieti: «La prima cosa che ho fatto è stato cercare il “paisà”, gente della mia zona e con cui avrei potuto parlare il mio dialetto. Trovai tre ragazzi che durante la libera uscita si facevano di eroina, io al massimo avevo fumato hashish ed ero incuriosito, un giorno mi fecero provare e mi era piaciuto così tanto che per 25 anni non sono più riuscito a fermarmi». Dismessa la divisa e tornato a Porto San Giorgio, Giulio si mette alla ricerca di qualche pusher da cui acquistare lo stupefacente. Non era un vizio: «per me era diventata una cosa indispensabile per vivere». Ad aiutarlo nella ricerca compare una ragazza divorziata, tossicodipendente: «Dopo tre volte che ci eravamo visti me la sono ritrovata in macchina e abbiamo avuto un rapporto sessuale, sapevo che si drogava». La relazione dura cinque mesi, poi stop per decisione dello stesso Giulio che però sprofonda ancora di più nell’alcol e nella droga. Il Sert lo invita ad andare in una comunità in Spagna: «prima di partire dovevo fare il test della sieropositività. Lo fece anche quella ragazza e risultammo entrambi positivi, ce lo dissero come se avessimo un raffreddore perché all’epoca non se ne sapeva molto».
La telefonata choc e la morte della moglie
Dopo pochi anni di cure farmacologiche, la doccia gelata: «Il primario di Fermo telefonò in casa di mia madre e le disse che mi erano rimasti non più di quindici giorni. Lei cercò di indorarmi la pillola il più possibile, poi mi disse chiaro e tondo che mi era rimasto poco. Ricordo le sue lacrime e scoppiai a piangere anch’io. Ricominciai a bere e a drogarmi, non mi importava più di nulla». La storia però prese un'altra piega. Il matrimonio, l’amore della vita e la pace, almeno così sembrava. «Aveva cinque anni meno di me, aspettammo che fosse maggiorenne e ci sposammo. Io avevo deciso di andare in una comunità terapeutica del maceratese». Ma in una calda giornata di luglio del 1995 a trovare Giulio in quella comunità ci andò la Uno dei carabinieri con a bordo un maresciallo e un appuntato: «Mi dissero che mia moglie era sparita da venti giorni, che era stato trovato un cadavere vicino alla sua macchina e che io avrei dovuto fare un riconoscimento. Davanti alla cassetta piena di ossa la riconobbi grazie a un orologio che gli avevo regalato io. Mi si fermò il cuore, non so come feci a non svenire. Ancora oggi non si sa cosa possa esserle successo e aspetto giustizia». Alcol e droga tornano quindi di nuovo al centro della vita di Giulio, che finisce nell’ennesima comunità ma stavolta con una candida esofagea: «Un'infezione dovuta all'Aids, vivevo con due flebo per 24 ore al giorno e una maschera per l’ossigeno sempre attaccata».
«Ecco chi sono»
Da due anni Giulio vive al Focolare. Nella parete della sua stanza ci sono le foto degli affetti della sua vita. La moglie, i genitori, il nipotino e il Cardinale Edoardo Menichelli che nel maggio 2016 scrisse la presentazione del suo libro di poesie: «Qui dentro c’è scritto chi sono io». E per farlo capire meglio, Giulio sceglie proprio uno dei suoi versi: “Sono forse io lo scrittore che cerchi? No, io scrivo solo una parola: fatica. Sono forse un musicista? No, la mia nota è solo una: inquietudine. Sicuramente sarò un medico. Neanche, ho avuto fatica anche a curare me stesso. Io sono colui che si apre, non si vergogna, si scopre e tira fuori l’anima”. Poi chiude il libro e sorride. «Ecco, proprio come ho fatto con te»