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Psicologia della notizia

Psicologia della notizia

A cura di Istituto Europeo di Psicologia ed Ergonomia (IPSE) di Ancona

Relazioni virtuali e uso spasmodico di chat, ecco quali rischi corriamo

Anche WhatsApp ha una doppia faccia: oltre alla facilità e rapidità di utilizzo e la presenza sociale, c'è "il lato oscuro della forza". E questo lato è mentale e modifica la nostra percezione e attenzione

Di fronte alla mia scrivania ho un quadretto con l’immagine ormai sbiadita di Snoopy che, con aria perplessa, seduto sopra la propria cuccia e con davanti una macchina da scrivere e un foglio bianco incastrato, sta riflettendo se scrivere o meno l’inizio del proprio racconto con la frase “Era una notte buia e tempestosa…”. Seppur inserito in un contesto datato e inusuale come lo scrivere con la macchina dattilografica, la frase a cui Snoopy sta pensando racchiude la metafora del voler comunicare qualcosa, magari qualcosa di innovativo e coinvolgente, interessante ed elettrizzante, ma che in realtà  è stato già ampiamente utilizzato. Probabilmente se rapportato ad oggi, l’immagine di Snoopy sarebbe diversa: seduto sopra la propria cuccia, magari con la stessa aria dubbiosa, avrebbe in mano uno smartphone, l’applicazione di WhatsApp aperta e non avrebbe difficoltà a scrivere qualcosa a qualcuno (o ad un gruppo di cui è membro), aggiungendo al messaggio inviato faccine o immagine o foto, per potenziare la propria comunicazione. E non è un problema se nel messaggio ci sono parole parziali, errori, frasi con dubbi costrutti, sensi “in-compiuti” e se il messaggio inviato viene letto in modo superficiale: molte comunicazioni via smartphone, specialmente quelle tramite programmi di messaggerie istantanee, sono facilmente integrabili, gli scambi sono serrati, l’attesa della risposta è pressoché azzerata (non sempre), la presenza sociale on line è costante, e la comunicazione è fluida, continua. Il significato di ciò che si esprime è presto dimenticato, la schermata scorre e nuovi messaggi arrivano. E’ quasi inutile ribadire che mediante social e messaggerie istantanee la comunicazione interpersonale oggi sia totalmente diversa da alcuni anni fa: velocità e percezione di comunicare in modo maggiormente diretto, abbattimento delle distanze, maggiore coraggio nell’esprimere il proprio pensiero (o meno  inibizione) dato dalla “barriera” creata dallo strumento. Queste sono tutte caratteristiche condivise dalle istant chat per smartphone, e attualmente la madre di tutte è WhatsApp, a cui si accede scaricando la piccola App  verde e bianca, e in pochi secondi si è catapultati in una costante esistenza on-line.

WhatsApp è uno strumento utile, aumenta le possibilità di relazioni e di rimanere in contatto con chi ci interessa in ogni momento della giornata, a priori del luogo in cui si trova. Inoltre è molto semplice e utile per l’organizzazione di incontri o di eventi mediante la possibilità di creare gruppi ad hoc, sia per il tempo libero che per il lavoro. Crea un supporto sociale in momenti di solitudine e di tristezza (chiaramente se voluto dalla persona), non di meno è gratuito, e perciò maggiormente fruibile. Permette di inviare foto, audio, immagini, oltre chiaramente al testo, con cui condividere significati con chi si vuole, quando si vuole. Ma ahimè, come ogni moneta, anche WhatsApp ha una doppia faccia: oltre alla facilità e rapidità di utilizzo, la presenza sociale, il divertimento di condividere con gli altri varie tipologie di contenuti e il vantaggio economico, c’è “il lato oscuro della forza”. E questo lato, tendenzialmente, è mentale. 

Il tempo. Una significativa parte del nostro tempo di vita, privato o lavorativo, viene passato scrutando il cellulare, sperando di vedere che, in nostra assenza, il numero di messaggi in attesa di essere letti siano diversi da zero. Ciò dà una percezione di quanto le altre persone ci hanno cercato, desiderato, o hanno voluto condividere con noi qualcosa. Inoltre, tale attesa o curiosità di controllare quasi costantemente i messaggi in arrivo (spesso anticipati da suono o vibrazione), può depotenziare un’altra nostra capacità, ovvero l’attenzione verso cosa stiamo facendo, sia in ambito lavorativo che in ambito relazionale (nel mondo reale però). Ciò influenza quindi sia la nostra capacità di concentrazione a lavoro, ma anche quella di reale interesse nel rapporto con l’altro, di vero ascolto e condivisione, che attualmente viene sovente interrotto per “sbirciare” nell’altro mondo, quello virtuale. Quando si inviano contenuti, WhatsApp permette di monitorare lo stato dei nostri messaggi: inviato (una piccola “v”), arrivato al destinatario (due piccole “v”) e visualizzato al destinatario (due piccole “v” verdi). Quando il messaggio risulta visualizzato e subito arriva la risposta, nessun problema. Ma cosa succede se la persona a cui abbiamo scritto non risponde? Quanti pensieri negativi accompagnano la nostra riflessione? Se è un amico, magari ci indispettiamo, ma nulla più. E quando è il nostro partner che visualizza e non risponde, cosa facciamo? Oppure, quando veniamo salutati in una chat e vediamo che la persona (tendenzialmente il partner) risulta essere ancora on-line, cosa proviamo? I sentimenti più comuni sono quelli di rabbia, ansia e frustrazione, dati dall’insicurezza personale e dal dubbio su cosa stia effettivamente facendo l’altra persona, dove si trovi e con chi. Ciò dipende anche dal fatto che siamo assuefatti ad una comunicazione immediata e perciò il tempo di attesa, di accettazione di una risposta, si abbassa vorticosamente, fino quasi a pretendere un’azione immediata di risposta. La gelosia prende il largo nei nostri pensieri, accompagnata da rimuginazioni, e può influenzare negativamente il nostro umore. Ci sono soluzioni? Certo. Non serve eliminare l’utilizzo di queste e delle altre messaggerie istantanee, demonizzare l’utilizzo dello cellulare o lamentarsi passivamente di come le relazioni con gli altri siano cambiate. Ciò che serve capire è che oltre il telefonino siamo circondati da un mondo reale, il quale pretende da noi una vita attiva e sociale, condivisa con gli altri, e che ognuno di noi ha l’obbligo di ascoltare se stesso, valorizzando anche momenti di sana solitudine. Dipende da ognuno di noi ritrovare un soddisfacente contatto con gli altri, integrando un uso consapevole e il più possibile razionale dello smartphone con la bellezza della quotidiana relazione con le persone che completano il nostro mondo reale.

Dott.  Andrea Montesi - psicologo del lavoro e delle organizzazioni, referente IPSE Ancona, docente di ergonomia e antropometria alla Poliarte di Ancona, cofondatore CTM Forlì

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