La psicologia di un terrorista
Se nel breve periodo l’obiettivo dell’attacco terroristico è infatti quello di intimidire e terrorizzare un pubblico più grande rispetto alle persone realmente “attaccate”, nel lungo invece diventa quello di spaventare intere comunità
Sono trascorse solo due settimane dall’ultimo attacco terroristico di natura islamica messo in atto a Barcellona. 16 morti e oltre 100 feriti il bollettino finale. Questi numeri macrabi già basterebbero per parlare di un avvenimento terribile se solo non fosse che, studiando la natura psicologica del terrorismo, la realtà dei fatti è ancor più negativa.
Le vere vittime del terrorismo siamo infatti tutti noi. Chi ha guardato i filmati dei corpi distesi sulla Rambla, chi si è rifiutato di recarsi nelle grandi città in questo periodo, chi ha guardato con sospetto un musulmano. Tutti, compreso chi scrive questo articolo. Tutti coloro che possono immedesimarsi in quei civili innocenti e che hanno sperimentato paura.
Se nel breve periodo l’obiettivo dell’attacco terroristico è infatti quello di intimidire e terrorizzare un pubblico più grande rispetto alle persone realmente “attaccate”, nel lungo invece diventa quello di spaventare intere comunità, causando conseguenze gravi sia a livello sociale (l’aumento della discriminazione razziale e religiosa), sia a livello economico (la diminuzione dei flussi turistici) che naturalmente sotto l’aspetto psico-comportamentale (suscitare il terrore di qualcosa di imprevedibile/invisibile e inibire le attività).
Ma chi sono realmente i terroristi a livello psicologico? Sono dei “matti” potenzialmente individuabili? Come si forma la personalità del terrorista?
Quello che è curioso su questo ambito è che tutti almeno una volta - dall’attacco dell’11 Settembre 2001 alle Torri Gemelle fino ad oggi - abbiamo pensato: “questi sono dei pazzi… sono dei malati mentali!”.
In realtà, gli studi effettuati sulle personalità di chi ha commesso attacchi terroristici (“Brigate Rosse” italiane, ETA Basca, etc.) non hanno riscontrato nessun elemento psicopatologico nei membri. Al contrario, la maggior parte delle ricerche tendono a sostenere la normalità dei soggetti di tali gruppi (Victoroff, 2005). Come ogni organizzazione, lo Stato Islamico predilige infatti gente affidabile e scarta chi dà segni di squilibrio.
Tra le sicurezze sulla formazione mentale di chi compie attentati c’è sicuramente la presenza di:
- una poca elasticità, ovvero l’incapacità di assumere punti di vista differenti dal proprio, di selezionare cronicamente ciò che conferma le proprie tesi e di eliminare ciò che le mette in crisi, saltando subito alle conclusioni;
- un locus of control esterno tipico di chi individua l’origine dei propri problemi delegando le responsabilità agli altri invece che a se stessi.
Oltre a questi aspetti, nessun fattore ambientale o sociale (lo stato socio-economico, l’età, l’istruzione, l’occupazione straniera, la povertà, etc.) può “automaticamente” portare allo sviluppo del terrorismo né costituirne la causa necessaria e sufficiente (Kruglanski & Fishman, 2006). Pensandoci bene infatti, se è vero che molte persone condividono gli stessi ambienti e gli stessi disagi, solo pochissimi (fortunatamente!) si arruolano a gruppi terroristici.
Questo non sta a significare che i tratti di personalità o le condizioni ambientali non siano importanti nello scaturire di un fenomeno terroristico. Nella giusta situazione infatti possono incentivare l’entrata di un membro in un gruppo ma sono comunque secondari.
Ad agire ci sono infatti motivi personali (traumi, perdite, umiliazioni, etc.) e naturalmente ideologici/religiosi (la globalizzazione, la gloria dell’Islam, etc.).
Oltre a questi, tra le dimensioni psicologiche più importanti troviamo quelle di natura sociale e in particolare, di gruppo:
- il bisogno di appartenenza - insito in ogni essere umano e in particolare nei giovani - ovvero la necessità di sentirsi appartenere a qualcosa che dia senso. È come se far parte di gruppi estremisti ed abbracciare le loro ideologie permetta ai giovani di affrontare le insicurezze riguardo se stessi, il mondo che abitano e le proprie transizioni sociali (Gibbs, 2005);
- il valore persuasivo di un “impegno pubblico” a cui l’adepto è tenuto, il quale garantisce al gruppo la “fedeltà” dei futuri martiri (Berman & Laitin, 2008);
- la creazione di un “punto di non ritorno”, incentivando il futuro martire a scrivere ad esempio le ultime lettere ai parenti e incoraggiando gli altri a seguire il proprio esempio (Merari 2002).
Sotto la pressione di tutte queste variabili psicologiche, il candidato si sentirà in dovere di agire nel rispetto dei propri valori, della propria famiglia, dei propri amici, della comunità o della religione. Non agire verrebbe invece percepito come un tradimento di tali ideali.
Inoltre, a causa della moralità implicata nell’attività terroristica per conto di una causa collettiva e il sacrificio di sé che il terrorismo comporta, i gruppi terroristici premiano i loro operatori con notevole venerazione, accordando loro lo status di “martiri”(Kruglanski, Chen, Dechesne, Fishman, e Orehek, 2009a, b). Questo naturalmente rappresenta un incentivo molto importante all’azione suicida/omicida.
Detto questo, come possiamo fronteggiare questo enorme pericolo e limitare la nostra paura? Come possiamo difenderci da esseri umani che condividono dei valori totalmente diversi dai nostri e un senso della (non) vita per noi assurdo?
Come abbiamo visto, a livello psicologico, il fatto che non esista un tratto e/o una costruzione di personalità tipica del terrorista non ci permette di poter rintracciare preventivamente chi potenzialmente pericoloso e in grado di mettere in atto azioni da martire. Le strade da percorrere sono allora due a mio avviso: la prima in ambito preventivo e la seconda sotto l’aspetto mass mediale/comunicativo.
La prima strada è da intraprendere naturalmente nelle strutture scolastiche dove possono essere messi in atto percorsi educativi e ludici tali da ridurre gli stereotipi e le discriminazioni, educare alla cittadinanza, ai diritti umani e al valore della diversità, coltivando il pensiero critico. Inoltre, è importante discutere di politica estera e di terrorismo, delle sue radici e delle possibili risposte, promuovendo il dibattito senza cercare di convincere, né di giudicare e senza tarpare le discussioni sui temi scomodi o fornendo risposte preconfezionate.
Nella seconda c’è bisogno naturalmente di un’alleanza e di una presa di posizione da parte delle testate di informazioni e di tutti coloro che diffondono notizie. Come abbiamo detto, il terrorismo mira principalmente alla paura della popolazione e questa emozione si sviluppa attraverso l’informazione. Un fatto accaduto a centinaia e centinaia di chilometri è comunque in grado di influenzarci, a prescindere da tutto.
Se limitare l’informazione e non far proprio passare le notizie terrorizzanti sarebbe impossibile – per me auspicabile in modo da limitare la diffusione della paura ma per alcuni sicuramente discutibile – è possibile comunque agire controbilanciando la cronaca del terrore con quella della “lotta”.
Come? Rimanendo neutri e parlando si del pericolo ma anche di tutte le forze che lo contrastano, con la stessa intensità. Così facendo non si rischia infatti di fornire all’IS un valore più grande di quello che realmente hanno e alla popolazione di vivere con un’ansia più contenuta, informata e reale.
Se è vero che sono in grado di intimidirci, conoscendo la loro psicologia possiamo anche evitare di fare il loro “gioco” e smettere involontariamente di esaltare così tanto le loro gesta con un’alta attività di azioni commemorative e una presenza massiccia sui mass media.
Dott. Daniele Orazi – Psicologo delle organizzazioni e del marketing / Collaboratore dell’Istituto Europeo di Psicologia e di Ergonomia
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