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Domenica, 28 Aprile 2024
Cronaca

Caporalato in cantiere, operai ridavano indietro metà busta paga. «Meglio avere 600 euro che vendere le rose in strada»

È in corso al tribunale di Ancona un processo per sfruttamento del lavoro di manovali bengalesi. Due gli imputati, i mandanti del titolare di una azienda che lavorava in appalto per coibentare scafi navali

ANCONA - Avevano ben chiaro lo sfruttamento del lavoro ma se lo tenevano stretto anche se a fine mese metà del loro guadagno lo dovevano ridare a chi li aveva assunti, con contratti sempre a tempo determinato. «Meglio avere 600 euro che vendere le rose in strada» dicevano. A fargli aprire gli occhi sono stati i sindacati. Basta a buste paga dimezzate per assicurarsi un lavoro e con esso il permesso di soggiorno per rimanere in Italia. Per tre anni, tre operai bengalesi, assunti da una ditta di appalti che lavora all'interno di Fincantieri, al porto di Ancona, specializzata nella coibentazione di scafi navali, avrebbero restituito fino a 700 euro (su uno stipendio di 1.200 euro) mensili al datore di lavoro che mandava a riscuotere la cifra in contanti da due suoi collaboratori. Uno stato di bisogno che li aveva portati ad accettare quella condizione e a convincersi, come poi hanno confidato al sindacato a cui si erano rivolti, che «meglio avere 600 euro che vendere rose sulla strada». La vicenda di presunto caporalato, denunciata nel 2019 ma andata avanti dal 2017, è finita ora a processo al tribunale di Ancona (giudice Martina Marinangeli, pm Irene Bilotta), dove questa mattina è stata proprio la segretaria generale della Fiom Cgil Marche a raccontare in aula i fatti come testimone dell'accusa. Era stato il sindacato, parte civile nel processo, a far partire l'esposto alla guardia di finanza, dopo le confidenze degli operai.

«Abbiamo una saletta per gli incontri dentro lo stabilimento Fincantieri Ancona - ha riferito in aula Galassi - all'epoca ero funzionario e seguivo le ditte di appalto per garantire i diritti essenziali ai lavoratori sui quali non correvano buone voci. Gli operai ci confidarono che due incaricati ogni mese andavano da loro per farsi ridare parte dello stipendio, tra i 600 e i 700 euro su una paga complessiva di 1.200 euro al mese. Gli operai pagavano perché mi dissero "meglio avere 600 euro che vendere le rose in strada". Le buste paga non avevano ferie e malattie pagate». Su 173 ore mensili di lavoro massimo che dovevano fare i lavoratori ne avrebbero fatte 260. Ad approfittarsi dello stato di necessità sarebbero stati sia il datore di lavoro  che i suoi due avamposti, bengalesi anche loro. Il titolare della ditta, che ha sede ad Ancona, è stato assolto in abbreviato mentre i suoi due bracci destri sono a processo per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Sono difesi dall'avvocato Massimo Canonico. Consegnando le riscossioni mensili che avvenivano in contati, per un totale di quasi 30mila euro in tre anni, avrebbero guadagnato una parte del profitto. I due operai vittime oggi non lavorano più per quella ditta. Prossima udienza il 17 maggio.

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