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Cronaca

Si buttò dal monte Conero, aveva 33 anni: il ricordo di Gabriele nella lettera della madre

Si buttò lo scorso aprile dal monte Conero dopo aver superato un gruppo di studenti in gita scolastica. Aveva 33 anni e oggi la madre di quel giovane ci scrive una lettera che noi pubblichiamo integralmente

Lo scorso aprile si buttò dal monte Conero dopo aver superato un gruppo di studenti in gita scolastica. Aveva 33 anni e oggi la madre di quel giovane, Gianna ci scrive una lettera chiedendoci di pubblicarla per dare di lui un ricordo diverso. Parole che noi decidiamo di pubblicare integralmente.

LA LETTERA. "Mio figlio dopo che è morto non è diventato improvvisamente “Oh! Era proprio un ragazzo solare” oppure “Oh! Era proprio un bravo ragazzo”. No. Gabriele era un ragazzo come tanti altri ma era talmente bello da ferire lo sguardo e intimamente buono da sfiorare l’ingenuità. Aveva dovuto lottare per la sopravvivenza già da appena nato: era piccolo e nato prima del tempo e nonostante pesasse solo 2.220 kg aveva sfoderato una grinta da colosso. Un mese di incubatrice al Salesi di Ancona e ce l’avevamo fatta. A nove mesi, continue infezioni alle vie urinarie lo rimettono alla prova e si ricomincia la trafila: camici bianchi, pediatri, nefrologi, accertamenti invasivi e dolorosi, terapie infinite che lo rendono agitato e iperattivo. Poi a sei anni l’operazione per il reflusso bilaterale dell’uretere. In ospedale era allegro, faceva amicizia con tutti nonostante le tante sofferenze. Ce l’avevamo fatta. Poi arriva la scuola, le prime difficoltà, i primi piccoli insuccessi che per lui erano immensi perché la dislessia, che pur leggera come ali di farfalla, lascia un marchio a fuoco a vita che lo condizionerà per sempre. Si sente inadeguato e perde fiducia nelle sue capacità, in se stesso. Nonostante la grinta, la bellezza, la bontà, l’amore, l’amicizia, si è sentito solo, perso. Tanti ragazzi si perdono e non hanno ali e non incontrano la fatina Campanellino per volare via come Peter Pan. Ha cercato. Ha cercato non so cosa, forse l’attestazione del suo io, forse la sicurezza che lo facesse sentire il numero uno, come ha sempre sognato. È normale, ogni ragazzo sogna di essere il primo nella vita. Si è lasciato abbacinare da “prove” che solo i cosiddetti “uomini duri” riescono sfrontatamente ad affrontare. Sfortunatamente non si è reso conto che la spavalderia giovanile inganna e fa credere di essere invincibili, immortali, i più forti. Forse era sicuro di poter controllare tutto, ma quelle false esaltazioni che inducono la mente a vagheggiare, che ti danno fiducia, che ti fanno stare bene e con la sensazione di essere un superuomo, non sono altro, in realtà, che sabbie mobili che centimetro dopo centimetro portano lentamente, molto lentamente, giù, sempre più giù fino in fondo, annaspare è inutile. Subdola e strisciante ecco che arriva la depressione, sei solo nel nulla senza appigli, la realtà scolora anzi si deforma e ti chiudi in camera al buio e ci rimani per ore, giorni, settimane, mesi, estati intere. Nella mensola della tua camera scrivi i nomi dei tuoi amici, i tuoi compagni di sventura che sono morti. Piangi, ti disperi, dici “li voglio raggiungere, mi mancano tanto, ho tanto dolore” “No, no perché dici così tu devi farcela anche per loro”. Finalmente ti alzi dal letto, esci dalla tua tana e torni a vivere. Ce l’aveva fatta. Poi arriva il primo ricovero e si continua la trafila: camici bianchi, psichiatri, psicologi, terapie infinite terapie “Si. Ce la fa. Certo che ce la fa, ce la deve fare”. Ha collezionato otto ricoveri, sempre nel periodo estivo, quando gli altri vanno al mare. Tra un ricovero e l’altro sei mesi di comunità, mesi terribili, che tolgono la volontà, abbrutiscono, ledono la dignità. Assomigliava all’omino della “Michelin” tanto era ingrassato e inebetito. «No, mi dispiace, il ragazzo non è collaborativo per niente e nonostante le massicce terapie e le tempestive punizioni non reagisce a dovere» dice la direttrice. Torna a casa, la stupenda casa nascosta dagli alberi, immersa nel verde. C’è tutto: i suoi genitori, suo fratello e sua sorella, il grande amore, la macchina, il lavoro con papà e il fratello, la cameretta con il soffitto celeste, i cani con cui fa infinite passeggiate al Monte Conero. È finita venerdi 22 aprile, si lancia dal tanto amato Monte Conero. Ti chiamavi Gabriele, come l’angelo, e proprio volando te ne sei andato.Non rimane che dolore, tanto e talmente denso che avviluppa come miele. Tanti dicono che ha trovato la quiete, la pace, ma per me non è così perché non so dov’è, non lo vedo, percepisco la sua solitudine e desolazione, era troppo attaccato a tutti noi, ci amava. 

Dedicato a Franco Maria e a tutti gli alunni del Liceo “C. Rinaldini” che il 22 aprile erano in gita al Monte Conero e che lo hanno visto buttarsi giù.

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