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Cronaca

Appello revoca fallimento, ma ormai l’azienda è sul lastrico: «Stato nemico delle imprese»

Giuseppe Fagone, ieri mattina ha protestato davanti al Tribunale. Chiede la restituzione dell’attività e, attraverso l’avvocato Giuseppe Novara del foro di Milano, ha denunciato i giudici anconetani

I giudici di primo grado dichiarano il fallimento dell’azienda, che viene così sequestrata e bloccata. Poi la sentenza viene completamente ribaltata in Appello. Ma ormai la ditta è sul lastrico, con un fatturato fermo, una competitività di mercato distrutta, profitto azzerato e dipendenti senza stipendio da mesi. Per questo Giuseppe Fagone, amministratore unico della società fallita Elio C4 Srl di Falconara, ieri mattina ha protestato davanti al Tribunale di Ancona, distribuendo volantini che riassumevano la vicenda giudiziaria, chiedendo a gran voce la restituzione dell’attività. Non solo, perché, attraverso l’avvocato Giuseppe Novara del foro di Milano, ha denunciato i giudici anconetani della sezione civile-fallimenti e i curatori fallimentari per abuso d’ufficio e calunnia, depositando una querela al Tribunale de L’Aquila, competente per procedimenti  a carico della magistratura anconetana. 

La fornitura contesa

Il caso nasce nel 2015, quando un'azienda di Ravenna ordina alla Elio una fornitura di bottiglie di birra da rivendere in Cina per un totale di 25mila euro. Carico mai consegnato. Per la Elio è la ditta romagnola a non ritirare mai la merce, mentre per quest’ultima è la Elio a mancare la consegna. Così, oltre ad una causa civile per riottenere il credito al tribunale di Ravenna, la ditta ravennate fa istanza di fallimento verso la Elio.

La decisione e il crollo dell'attività

Pretesa accolta dal tribunale civile di Ancona che, nel luglio scorso, dichiara fallita la Elio C4 Srl di Falconara. Fine dell’attività imprenditoriale. I curatori fallimentari entrano nella ditta anconetana e congelano tutto, compresa, per errore, l’auto dell’avvocato Novara, che ha poi dovuto fare istanza al giudice per riavere indietro la macchina. Alla fine ditta ferma e 14 dipendenti, tra impiegati e agenti di vendita, senza più un lavoro e uno stipendio. 

La sentenza dei giudici fallimentari 

Stando alla sentenza dei giudici fallimentari del capoluogo dorico, l’attività di Fagone è fallita per uno stato conclamato di insolvenza. Cosa significa? Che la ditta non avrebbe avuto il capitale necessario per pagare i costi di azienda e al contempo coprire tutti i debiti. “Tanto dall’ultimo bilancio approvato...quando dalla situazione patrimoniale..., emerge infatti la mancanza di liquidità necessaria” si legge nella sentenza di primo grado, dove i giudici mettono in discussione un aumento di capitale da 20mila a 230mila euro: “Costituisce un mero dato contabile” perché si sarebbe trattato “non di erogazione di liquidità, ma di mero mutamento di estinzione di un conto già presente a bilancio”. In più, sempre nella sentenza con cui è stata dichiarata fallita la ditta di Fagone, i giudici riscontrano anche come “nei confronti dell’Erario sussistono inadempimenti”.

Il ricorso dell'imprenditore e le meorie della difesa

Nulla di tutto ciò sarebbe stato vero per Fagone e l’avvocato Novara, che hanno fatto ricorso alla Corte d’Appello delle Marche, documentando una ditta con un fatturato di oltre 1 milione di euro nel 2019, con un capitale sociale di 200mila euro, una società con zero debiti e merci a magazzino per circa 300mila euro, interamente pagate. Le stesse merci di magazzino di cui i giudici parlano quando dicono che: “Vero è che l’attivo risulta indicato in euro 504.628,00, ma esso è costituito per la quasi totalità da rimanenze di magazzino”, come se fossero beni svalutati o non fossero della vera ricchezza dell’impresa. E i rapporti con l’erario? Secondo la difesa, la sentenza arriva addirittura a smentire se stessa quando, da una parte, si legge che “non risultano violazioni gravi relative all’obbligo di pagamento di imposte e tasse certe”, dall’altra, che “anche nei confronti dell’Erario sussistono inadempimenti”. 

La decisione della Corte d'Appello

Memorie difensive che hanno pesato di fronte ai giudici di secondo grado che, alla fine, a novembre, hanno revocato il fallimento. Infatti l’insolvenza, come incapacità dell’imprenditore di far fronte a uno o più debiti, “non emerge, a fronte delle scorte di magazzino…in quanto i debiti risultano inferiori al valore delle scorte…dal bilancio 2018 risultano crediti esigibili…inoltre il rapporto tra costi e ricavi rivela una gestione aziendale secondo criteri di economicità e il bilancio apposta anche utili di esercizio pari ad euro 8.112,00”. 

I commenti

«In Italia non esiste il diritto d’impresa e lo Stato è nemico delle aziende - ha commentato proprio Fagone che ieri era davanti al palazzaccio dorico per protestare - La mia vita è finita, la mia azienda è morta, me ne andrò dall’Italia». 

«È la prima volta che mi capita una cosa del genere - ha commentato l’avvocato milanese Novara - Non si può gambizzare un’azienda che sta correndo, che è sana e che dà occupazione. I tribunali devono stare molto attenti perché possono creare disagi sociali non da poco. Ci sono dipendenti e procacciatori di affare che adesso devono ripartire da zero insieme al mio cliente». E infatti l’avvocato sta anche lavorando ad una richiesta di risarcimento civile proprio nei confronti delle toghe anconetane, che si andrà a sommare alla denuncia penale. 

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