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Cronaca

Contrabbando, i tentacoli della corruzione sul porto: a processo i vertici del gruppo

Prima udienza preliminare a seguito dell'Operazione Meeting conclusa nel 2017 dalla Guardia di Finanza di Ancona, tra rinvii a giudizio e richieste di riti alternativi al processo ordinario

Quella sgominata dalla Procura della Repubblica di Ancona nel 2017 era un’organizzazione criminale collaudata, solida e capace, tra il 2015 e il 2017, di spostare all’interno del territorio europeo quintali di prodotti fantasma per eludere il pagamento dell’Iva e delle accise sulle merci. Infatti mentre la prima colpisce lo scambio di beni in ambito commerciale, le seconde sono imposte sul consumo di beni e per il pagamento di entrambe c’è un presupposto imprescindibile: la territorialità. Cioè i prodotti devono “uscire” per essere esenti da tasse. L'affare era rendere invisibili grosse spedizioni di sigarette e alcol da contrabbandare. Come? Destinandole a paesi EU con tassazione più elevata o addirittura esportandole in Africa varcando le frontiere dei più importanti porti d’Italia: Trieste, Livorno, Civitavecchia Bari e appunto Ancona. Tutto sulla carta però. In verità quei carichi restavano in Italia. Così il gruppo faceva affari su un doppio binario: il risparmio delle imposte non pagate e la vendita di prodotti in nero, con la conseguente evasione anche delle imposte sul reddito. E' questo il sunto della maxi inchiesta del pm Mariangela Farneti (foto in basso a sinistra) che, al tempo, diede il via all’Operazione Meeting, a cui parteciparono la Guardia di Finanza di Rieti, le Fiamme Gialle del G.I.C.O di Ancona e i funzionari dal Servizio Centrale Antifrode della Dogana di Roma e Bologna. Indagine che, nel settembre 2017, portò all’esecuzione dell’ordinanza con cui il Gip di Rieti autorizzò una serie di misure di custodie cautelari. E ieri nella prima udienza preliminare, il Gip Sergio Casarella ha rinviato a giudizio ordinario i vertici della presunta organizzazione: Anacleto Capetta, 54 anni di Catania ma residente in Inghilterra, considerato il vero dominus del gruppo per il quale l’avvocato Francesca Petruzzo-2Francesca Petruzzo (foto a sinistra) ha chiesto e ottenuto la modifica della misura cautelare dal carcere ai domiciliari, Costel Zaif romeno di 52 anni, considerato uno dei principali finanziatori del gruppo difeso dagli avvocati Anna Maria Lovelli e Fabrizio D’amico del foro di Roma e anche lui ai domiciliari. C'è anche Massimo Baldassarri, l’ex maresciallo dell’Esercito Italiano di Spoleto considerato l’interlocutore di Capetta e coordinatore della filiera costituita da compiacenti spedizionieri, dipendenti portuali e funzionari doganali ad Ancona. Per lui il pm ha chiesto il rinvio a giudizio e il giudice si è riservato. Hanno invece chiesto di patteggiare i due anconetani considerati parte integrante delle operazioni al porto di Ancona: Luca Patrignani 36enne di Ancona difeso dall’avvocato Gianni Marasca e il vigilantes Liberato Di Martino difeso dagli avvocati Fernando Piazzolla e Giacomo Curzi. Richiesta di rito abbreviato per gli altri: il funzionario della dogana dorica Giovanni Rocco De Leo difeso dall’avvocato Paolo Tartuferi, Diego Pantaloni 39 anni di Ancona difeso dall’avvocato Domenica Biasco insieme a Lucio Pierri 58 anni di Roma e Alessandro Duca 39 anni di Ancona. Tutti accusati di associazione per delinquere di carattere transnazionale dedita alle frodi fiscali, corruzione e, ad esclusione di Zaif, della falsificazione dei documenti di spedizione delle merci. 

L’organizzazione e i tentacoli della criminalità sul porto di Ancona 

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, i centri di comando dell’organizzazione erano due. Il primo era Capetta. Era lui il broker che, tramite una seconda organizzazione romena, curava gli interessi dei vari imprenditori interessati a realizzare il meccanismo di frode fiscale tramite finte esportazioni. Poi c’era Baldassarri, anello di congiunzione tra i clienti internazionali e la catena di montaggio volta alla falsificazione dei documenti nei vari porti. Da sempre identificato come uno dei capi, non solo perché vantava numerose conoscenze tra forze dell’ordine e pubblici ufficiali, ma anche perché, al telefono con altri sodali, vantava di essere uno tra quelli che guadagnavano di più, anche 24mila euro al mese. E pensare che all’inizio lo scalo dorico era stato quasi snobbato dai vertici in giacca e cravatta. Tanto da restare sbalorditi dopo aver allungato un nuovo tentacolo sul porto marchigiano. “E pensare che noi Ancona l’avevamo scartata (…) - si legge in un' intercettazione telefonica agli atti - Abbiamo sempre lavorato nei porti grandi e Ancona l’avevamo eliminata da subito però dopo, quando ho conosciuto lui, mi ha detto che quello di Ancona è uno dei più grossi in assoluto”. Secondo i finanzieri “lui” era Di Martino, la guardia giurata di Osimo che, insieme a De Leo e ai dipendenti della ditta di spedizioni Pantaloni e Patrignani, aveva un ruolo centrale nella fase operativa della truffa. 

Le tesi difensive

Accuse rigettate delle difese, in particolare da chi lavorava all’interno del porto dorico, rivendicando di aver sempre avuto un ruolo marginale nell'associazione per delinquere che, secondo  gli avvocati, è tutta da dimostrare. In particolare Di Martino ha ammesso di aver partecipato ad un’operazione e di essersi subito defilato quando si è reso conto in che cosa si era cacciato, tanto da aver già restituito allo Stato le somme addebitategli dalla Procura. Un ruolo marginale lo ha avuto anche Patrignani che, difeso dall’avvocato Marasca (foto a destra), ha fatto solo da tramite Gianni Marasca-3tra chi si arricchiva davvero e alcune conoscenze all’interno del porto, tanto che la Procura stessa lo definisce un "mero intermediario" e gli contesta solo 2 operazione a giugno 2016 e poi più nulla fino all’arresto, arrivato ad un anno di distanza. Nessuna consapevolezza di un’organizzazione neppure per Pantaloni perché, anche lui, aveva contatti direttamente con uno dei vertici. Come poteva pensare di appartenere ad un’associazione strutturata, per di più di carattere transnazionale? Poche centinaia di euro per De Leo che, difeso dell’avvocato Tartuferi, respinge l’accusa di associazione a delinquere e l’ipotesi che vede il funzionario doganale intascare 6mila euro a mazzetta. Cifre che forse salivano nelle parti alte dell’organigramma del gruppo, a riprova che De Leo contava poco nel giro di affari sporchi. 

La falsificazione di documenti e il ruolo degli anconetani

Eppure, stando sempre alle indagini della Procura, gli operatori portuali corrotti erano necessari alla riuscita del maxi bluff ai danni dello Stato, dell’Europa e del libero mercato. In particolare Di Martino e De Leo erano figure fondamentali perché operavano alla fine della filiera quando c’era da falsificare i documenti per far figurare il carico all’estero. Infatti per controllare i movimenti delle merci, l’Europa ha previsto una serie di step: in primis l’EMCS (Excise Movement Control System) che è un sistema virtuale che lega la spedizione ad un documento di accompagnamento che metta in contatto il mittente, il destinatario e le varie amministrazioni doganali. Quando si tratta di esportare al di fuori dell’Europa, c’è una dichiarazione doganale che deve essere accettata alla fine di una procedura a cui viene assegnato un numero MRN (Movement Reference Number). A quel punto l’Ufficio consegna all’operatore il DAE (Documento di Accompagnamento esportazione) da presentare all’Ufficio d’uscita che verifica che la merce corrisponda a quella della documentazione e verifica l’uscita fisica delle merci. Non solo, perché, per quanto concerne il trasporto marittimo, all’atto dell’imbarco della merce sulla nave, l’agente marittimo redige un documento telematico chiamato Manifesto merci in partenza a cui, alla fine, una volta uscita effettivamente la nave, viene apposto il “visto uscire”. Una mole di burocrazia che imponeva la presenza più figure all’interno delle dogane per falsificare i documenti giusti, quelli in grado di certificare la partenza di navi cariche di sigarette, alcol e abbigliamento, quando in realtà quelle merci non avevano mai lasciato il porto ed erano pronte a girare di contrabbando. Qui entravano in gioco Di Martino e De Leo. Quest’ultimo valutano nell’ordinanza del Gip come “elemento essenziale e insostituibile nel sodalizio criminoso, malgrado svolga ruolo di mero partecipe e non di organizzatore”. E’ lui che partecipa a 47 operazioni (su un totale di 52 ricostruire dagli inquirenti), provvedendo a mettere mano nei sistemi informatici a cui aveva accesso, fino ad apporre la falsa attestazione di “visto uscire”. Pochi clic per intascare cifre su cui difesa e accusa si battono. Fatto sta che la Guardia di Finanza, dopo anni di indagini, ha fatto luce su un giro di contrabbando ed evasione dopo aver riscontrato una serie di anomalie: in numerose occasioni la società destinataria non era censita nel paese in cui si trovava la sede legale, molte società mittenti risultavano già coinvolte in frodi transnazionali, nonostante i documenti falsi la quasi totalità delle merci non risultava nel Manifesto di merci in partenza e, quasi sempre, i prodotti non erano attinenti con l’attività svolta dalle aziende destinatarie che, in alcuni casi, neppure esistevano e venivano inventate da altri collaboratori dell’organizzazione, rimasti fuori dalla maxi inchiesta e a suo tempo denunciati a piede libero.  

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