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«Si muore come ad Auschwitz, se continuate ad uscire di casa perderemo questa guerra»

A parlare è Silvia Giacomelli, infermiera in forze all'ospedale di Senigallia, in prima linea nella lotta contro il Coronavirus per cui «Si muore come ad Auschwitz e si lotta come in Vietnam»

Muoiono uno dopo l’altro, uomini e donne, anche giovani. Ma prima vengono ricoverati in urgenza, intubati nel più breve tempo possibile, senza poter chiamare un familiare, senza neppure il tempo di prendere consapevolezza del fatto che sì, è capitato proprio a loro: ammalarsi di Coronavirus. E in un secondo si passa da un fasullo senso di immunità all’angoscia di poter morire. 

Reparti d'ospedale come campi di concentramento 

«Muoiono a decine le persone e muoiono da sole, senza poter salutare i familiari. Va a ondate. Ci sono turni senza problemi e turni dove possono morire anche 3 persone nel giro di 2 ore. I ricoverati hanno febbri molto grandi, diamo loro da bere quanto più possibile e i farmaci per far scendere la temperatura, li puliamo e li aiutiamo a mangiare, teniamo i parametri. Loro vorrebbero tenerci la mano per un po’ di conforto ma dobbiamo ridurre al minimo i contatti, le persone da casa vorrebbero venire ma non possono avvicinarsi. Poi ci sono i gravissimi che arrivano in Rianimazione ma i posti letto sono pochi. I grandi anziani che hanno già delle patologie possono morire nel giro di poco, ho visto pazienti arrivare una sera senza più rivederli il giorno dopo perché erano deceduti nel frattempo. Mi prendo tutta la mia responsabilità quando dico che qui le persone muoiono come ad Auschwitz, sole, nude nel corpo e nell’anima, e noi lavoriamo come i soldati in Vietnam perché tutto quello che abbiamo sempre studiato e conosciuto è superato: non esiste più l’ospedale, esistono le zone Covid ad un livello di isolamento fortissimo. Non possiamo entrare e uscire dalle stanze a piacimento, non possiamo parlare e toccare i pazienti, si è creata una dimensione feroce di distacco, che scardina il concetto basilare di “gesto di cura”, nucleo fondante della professione infermieristica, che noi viviamo come una violenza».

E’ questa la verità di Silvia Giacomelli (foto a sinistra), infermiera anconetana di 45 anni e docente della facoltà di Infermieristica all’Università Silvia Giacomelli 2-2-2Politecnica delle Marche, in prima linea all’ospedale di Senigallia per arginare la diffusione del Coronavirus, la malattia che ha gettato l’Italia in uno stato di guerra. Come nelle violenze più barbare della storia, non esistono codici d’onore e non ci sono distinzioni. Così, all’epoca dalla pandemia, i corridoi degli ospedali dorici diventano la trincea di un fronte bellico, dove si combatte la resistenza dei giorni nostri, quella contro il Covid-19. Nei reparti il tempo è sospeso, ogni vicinanza col paziente è rischiosa, ad ogni terapia devono seguire precauzioni da mettere in atto in modo maniacale per evitare il contagio, ogni gesto naturale in tempo di pace diventa l’artificioso automatismo di una catena di montaggio. Così lavorano medici e infermieri, i nostri soldati, che potranno vincere la guerra non senza la maturità di una collettività capace di seguire le regole. Perché il bisogno di smaltire lo stress non è sufficiente a giustificare il rischio di contagio di una corsetta al parco, non mentre c’è chi si spacca la schiena per fermare le stragi quotidiane. E non sono solo “vecchi con patologie pregresse”, quella è la formula fredda e consolatoria di un bollettino che ha cominciato a registrare anche più giovani. La verità è che erano persone e le loro morti sono oggi i drammi delle loro famiglie e macigni sui cuori di professioniste come Silvia Giacomelli.

La testimonianza di Silvia

«Non è vero che muoiono solo anziani, giorni fa abbiamo intubato un 47enne senza patologie pregresse, non è come prima quando ti intubavano in uno stato di narcolessia per cui non ti rendevi conto, adesso la persona è vigile, l’anestesista dice chiaramente: “Ti sto per intubare”. E noi diamo ai malati il telefono per chiamare a casa, se sono più giovani fanno anche una videochiamata ai loro cari come se fosse l’ultima. E’ qualcosa di fortissimo. In 22 anni non ho mai visto una cosa del genere». Una verità difficile da ammettere per chi esce ancora di casa dicendo “Coronavirus? Tutte frottole”. Ma è la realtà dell’ospedale di Senigallia, di recente riclassificato come Covid19+. Qui gli infermieri fanno turni da 7 a 10 ore al giorno, ovattati da dispositivi di protezione individuale che impediscono loro di andare in bagno, mangiare e comunicare con l’esterno. Si piange anche a volte, ma si lavora tutti uniti come mai è stato prima. «Per qualsiasi cosa devi aspettare fine turno, cioè quegli indumenti te li togli solo se proprio non ce la fai più e vuoi evitare di fartela addosso. Abbiamo comprato anche i cerotti per le vesciche e ce li mettiamo al naso perché dopo un po’ la mascherina fa la lesione da decubito. Poi mettiamo le divise, i copriscarpe, i calzari, i camici in materiale speciale, i guanti, i copricapo». 

La quotidianità degli infermieri 

Nemmeno un centimetro di pelle libera e, ogni volta che si entra in contatto coni pazienti affetti da Covid, si rischia grosso. «Cerchiamo di isolarci il più possibile dalle nostre famiglie, io ho preso in affitto un appartamento estivo dove sto da sola. Non tutti possono permetterselo, ci sono poi colleghe con bambini piccoli che provano ad isolarsi dentro casa, ma è durissima e purtroppo iniziano a diventare tanti anche i colleghi positivi». Però la gente va a correre. «Io non so quanto all’esterno sia chiaro cosa succede qui dentro e in che condizioni lavoriamo noi, vorrei solo cercare di far capire al meglio cosa sta succedendo. Se noi diventiamo positivi voi non lo potete fare il nostro lavoro. Di notte dormo poco, mi sveglio spesso pensando al lavoro. Anche se ho lo stomaco chiuso, la mattina faccio colazione perché dopo non posso mangiare per diverse ore. Arrivo e ci vogliono 20 minuti per mettere tutti i dispositivi di protezione, si entra in zona Covid senza nulla, l’unica cosa che entrano sono i cellulari, completamente coperti dalla plastica, perché abbiamo necessità di sentirci tra di noi in maniera veloce. Quando entro, non esco più per ore e non posso mangiare. A volte ci sono le emergenze e nessuno di noi si tira mai indietro, mercoledì scorso sono arrivata a 17 ore di fila, ma non è un problema». Non si può nemmeno andare in bagno. «No, lo fai se proprio sei allo stremo e non ce la fai più perché significa spogliarsi di tutto, quindi buttare via un camice e ne abbiamo un numero molto limitato». 

Il tempo tra esterno e reparti d'ospedale

Ma la violenza del Covid arriva anche alla percezione del tempo. «C’è il tempo che vivete voi dentro casa, troppo lento o troppo veloce. Poi c’è il tempo di noi infermieri, dilatato perché ogni gesto è a distanza e con procedure lunghe, per cui prendere i parametri o fare una terapia può richiedere anche ore, mentre prima ci mettevi 10 minuti. Per questo dobbiamo fare quante più cose possibile per non doverci tornare troppo presto, evitando così troppi passaggi da una camera all’altra. La dimensione del tempo è sospesa».

«E' inutile che ci chiamino eroi se poi vanno a spasso»

Per questo la Giacomelli non ce la fa più a sopportare il menefreghismo di chi esce di casa come se nulla fosse: «Hanno l’egoismo di dire che non toccherà mai a loro e invece può toccare chiunque, non riguarda solo gli anziani. E' inutile che ci considerino come eroi se poi vanno a fare le passeggiate in gruppo con i passeggini. Non c’è più tempo, noi infermieri stiamo vivendo la più grande sfida professionale  che avremmo mai immaginato di dover affrontare, però lo ripeto: dobbiamo avere una responsabilità collettiva». E poi, rifacendosi al celebre film “Ogni maledetta domenica”, fa sua una frase del monologo di Pacino: «O noi risorgiamo come collettivo o saremo annientati individualmente, per cui o le persone restano a casa o noi non potremo salvarle e tutto si decide adesso».

Il futuro

Dunque come in un crocevia storico, per la Giacomelli il destino si decide oggi ed è per questo che è difficile pensare ad un futuro adesso. «Adesso c’è l’adrenalina e il senso del dovere che ci fa andare avanti, ma quando sarà finito tutto, penso che pagheremo un prezzo molto alto a livello psicologico». Una sindrome post traumatica? «Ti rispondo dicendo che quel termine è stato coniato per i reduci del Vietnam, per cui quando paragono la nostra condizione a quella dei reduci, lo dico con cognizione di causa».

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